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Channel: La Città Invisibile » rubrica Verba Woland

Verba Woland: scripta manent, verba volant

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Da Massimo Bruschi per La città invisibile

In questi ultimi tempi stiamo assistendo continuamente a interventi di politici e rappresentanti delle Istituzioni  che possiamo, con un eufemismo, definire inopportuni. Questi interventi naturalmente danno luogo ad aspre polemiche al punto che spesso gli interessati si trovano costretti a penose ritrattazioni.
Ciò mi spinge a ripubblicare parte di un vecchio post che spero possa essere utile anche alla famiglia de La Città invisibile.

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Occorre assolutamente ritrovare attenzione e rispetto anche nella comunicazione. Le parole sono pietre, così intitolava Carlo Levi un suo libro.

Le parole infatti possono, come una pietra, colpire e lasciare il segno, quindi vanno pesate con attenzione.

Dobbiamo rammentarlo sempre e non consentire che le parole si usino con leggerezza soprattutto se a pronunciarle sono personaggi pubblici.

I Romani dicevano:

Scripta manent, verba volant.

L'aforisma trae origine da un discorso di Caio Tito al senato romano. Ormai esso viene citato per dire che le parole possono disperdersi mentre gli scritti restano e potranno essere documenti incontestabili.

In realtà l'aforisma aveva originariamente valenza opposta volendo significare la superiorità della parola detta rispetto a quella scritta. Mentre le cose scritte giacciono immobili, mute e morte sulla pagina, le parole hanno le ali e volano: quindi possono raggiungere ogni angolo di mondo.

Dicono gli Spagnoli:

lo escrito, escrito está y las palabras se las lleva el viento

Ciò che è scritto sta scritto, le parole le porta via il vento. Anche in questo caso possiamo leggervi una superiorità della parola detta rispetto a quella scritta.

Un concetto mirabilmente espresso anche nei versi della grande poetessa Emily Dickinson:

A word is dead
Whenit is said,
Some say.
I say it just
Begins to live
That day.

Che potremmo tradurre così:

Una parola è morta
Appena è stata detta,
Dicono alcuni.
Io dico che proprio
In quel giorno
Comincia a vivere.



Verba Woland: uomini e santi

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Da Massimo Bruschi per La città invisibile

La cronaca di questi ultimi giorni ha riportato ancora una volta tristi esempi che ci hanno ricordato di quanto sia arduo per l'uomo combattere il suo istinto belluino. Cosa possiamo dire su questo argomento? Lupus est homo homini,[1] già sentenziava Plauto nel terzo secolo a.C (Asinaria, a. II, sc. IV, v. 495). Sono trascorsi più di due millenni ma siamo ancora costretti a ripetere il monito "attenti al lupo". Quel lupo che a quanto pare continua ad abitare in noi.

In questi giorni sto rileggendo - forse dopo mezzo secolo - un libro straordinario: La peste di Albert Camus. Un vero capolavoro ma soprattutto il diario di un'epidemia che sembra quella che ha colpito il nostro pianeta in questi anni.

Vi ritroviamo le ansie, le paure, gli egoismi, gli altruismi, l'amore, il dolore, le separazioni, la speranza e la disperazione, i lutti, l'abnegazione dei medici, il ruolo della stampa e della politica. Di un'attualità impressionante.

Qui voglio riportare un brano relativo alla conversazione di Jean Tarrou (uno dei personaggi principali del romanzo, figlio di un importante magistrato) con Bernard Rieux (medico che lotta contro la peste per tutto il romanzo e narratore della cronaca). Trovo, infatti, che questo brano possa rappresentare una sorta di manifesto politico o, se volete, una visione del mondo che mi piacerebbe potesse prevalere su tutte le altre.

Tarrou:

«Così io so che non valgo più nulla per questo mondo e che dal momento in cui ho rinunciato a uccidere mi sono condannato a un definitivo esilio: saranno gli altri a fare la storia. So inoltre che non posso giudicare questi altri. Mi manca una qualità per essere un assassino ragionevole, non è quindi una superiorità, ma ora acconsento a essere quello che sono. Ho imparato la modestia. Dico soltanto che ci sono sulla terra flagelli e vittime e che bisogna, per quanto è possibile, rifiutarsi di essere col flagello. Questo le sembrerà forse un po' semplice, io non so se è semplice ma so che è vero. Ho sentito tanti ragionamenti da farmi girare la testa, e che hanno fatto girare altre teste tanto da farle consentire all'assassinio, che ho capito come tutte le disgrazie degli uomini derivino dal non tenere un linguaggio chiaro allora ho deciso di parlare e agire chiaramente per mettermi sulla buona strada, di conseguenza ho detto che ci sono flagelli e vittime, nient'altro. Se dicendo questo divento flagello io stesso almeno non lo è col mio consenso. Cerco di essere un assassino innocente, lei vede che non è una grande ambizione. Bisognerebbe di certo che ci fosse una terza categoria, quella dei veri medici, ma è un fatto che non si trova sovente, deve essere difficile, per questo ho deciso di mettermi dalla parte delle vittime in ogni occasione, per limitare il male. In mezzo a loro posso almeno cercare come si giunga alla terza  categoria ossia alla pace».

Dopo un silenzio il dottor Rieux domandò se Tarrou avesse un'idea della strada da prendere per arrivare alla pace.

«Sì, la partecipazione al dolore degli altri».

Dopo un altro silenzio Tarrou confessa al dottore che ciò che davvero lo interessa è di sapere come si diventa un santo, e poiché lui non crede in Dio, vorrebbe più precisamente sapere come si può essere un santo senza Dio.

E qui Camus che, ricordiamolo, scrive  subito dopo la fine della terribile seconda guerra mondiale e della terribile tragedia di Hiroshima e Nagasaki (il romanzo è stato pubblicato nel 1947),  ci consegna, nelle due battute finali del dialogo, il suo amaro giudizio sull'uomo:

Rioux:

«Io mi sento più solidale coi vinti che con i santi, non ho inclinazione, credo, per l'eroismo o la santità.

Essere un uomo, questo mi interessa».

Tarrou:

«Sì, noi cerchiamo la stessa cosa ma io sono meno ambizioso».

Sono passati molti decenni da allora, avevamo sperato in una umanità migliore ma basta ascoltare un giornale radio o leggere un quotidiano per renderci conto che non abbiamo fatto passi in avanti. Qualche volta, anzi, mi sembra che si facciano passi indietro.

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1. Come è noto l'aforisma viene ormai comunemente citato nella forma breve homo homini lupus.

Verba Woland: Il pane e il circo

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Da Massimo Bruschi per La città invisibile

Il campionato di calcio è ricominciato con grande rumore mediatico. Contemporaneamente tornei di tennis, mondiali di atletica leggera, campionati di volley e di basket imperversano sugli schermi televisivi e sui quotidiani. Si ha così l'idea che i cittadini non pensino ad altro. Mi è così sembrato interessante pubblicare nuovamente un mio vecchio post (firmato allora Prof. Woland) e discutere sull'argomento.

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In un brillante articolo su La Repubblica, Maurizio Bettini (filologo e antropologo dell'Università di Siena) ha salutato la ristampa, per i tipi de Il Mulino, di un classico della storiografia:Il pane e il circo di Paul Veyne, insigne storico e archeologo, professore onorario del Collège de France a Parigi, dove ha insegnato dal 1975 al 1998.

Avevo dimenticato questo saggio, ormai classico, la cui lettura mi aveva affascinato oramai - me ne rendo conto con qualche brivido - trent'anni or sono.

Invito senz'altro alla lettura perché è quanto mai attuale.

Nel saggio Veyne si occupa soprattutto di un importante fenomeno: il mecenatismo o meglio, se vogliamo essere più precisi, l'evergetismo cioè quella pratica per cui i notabili elargivano una parte delle loro ricchezze alla collettività (in modo apparentemente disinteressato), pratica che sosteneva il sistema del clientelismo.

Qui però io desidero accennare brevemente  all'argomento che dà il titolo al  libro: panem et circenses.

Nelle Satire (Satira X, vv. 71-72) ad un certo punto Giovenale, riferendosi al popolo di Roma, chiede:

Sed quid turba Remi?

cioè:

Ma che fa questa gentaglia di Remo?

Ed ecco la risposta (vv.76-81):

iam pridem, ex quo suffragia nulli
uendimus, effudit curas; nam qui dabat olim
imperium, fasces, legiones, omnia, nunc se
continet atque duas tantum res anxius optat
panem et circenses

che possiamo tradurre (tenendo conto che il soggetto è il popolo):

Ormai, da quando non si vendono più i voti,
ha perso ogni interesse; un tempo
attribuiva tutto lui, potere,
fasci, legioni; adesso lascia fare,
spasima solo per due cose: pane e giochi.

A me sembra che le cose non siano affatto mutate da allora.

Ma vediamo cosa ne pensa Veyne.

Intanto occorre sapere che vi sono due letture del fenomeno panem et circensem.

Una, di destra (quella più congeniale al nostro storico), suggerisce che il popolo sprofondato in uno squallido materialismo perda il senso della libertà.

L'altra, di sinistra, ritiene che il divertimento distragga il popolo dalla lotta contro le diseguaglianze.

Veyne però osserva che queste teorie hanno un difetto: partono dal presupposto che i governanti vogliano in ogni caso subornare il popolo e che quest'ultimo seguirebbe la naturale tendenza ad occuparsi di politica e della cosa pubblica se non astutamente distolto dal farlo.

Non è così sostiene Veyne: il circo non è solo un'invenzione dell'imperatore e non è affatto detto che il popolo si occuperebbe di politica se non fosse distratto dai giochi.

Naturalmente il discorso è sintetizzato al massimo  ma mi piacerebbe sapere l'opinione dei lettori.

Verba Woland: il destino dei migranti

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Da Massimo Bruschi per La città invisibile

Chiunque legga il blog da anni sa quanto mi stia a cuore il problema dei migranti. Sapete come la mia opinione sia che l'uomo deve essere libero di costruire il proprio destino. L'aforisma homo faber fortunae suae ha troppo spesso per noi un significato solo letterario ma non è così. Ogni uomo ha il diritto di essere artefice della propria sorte (ricordo che fortuna in latino era una parola ancipite che poteva indicare quindi un destino sia fausto che infausto), ogni uomo ha il diritto di provare a migliorare le proprie condizioni di vita, anche quando questo significa lasciare i luoghi natii, senza che altri decidano per lui.

Ciò detto, vorrei fare il punto della questione migrazione dal momento che gli arrivi risultano sempre più numerosi e incontrollabili dando luogo ad una situazione di stallo che sembrerebbe senza via d'uscita.

Dobbiamo avere l'onestà intellettuale di capire che la politica di tutti i governi fino a questo momento è stata fallimentare: i numeri parlano chiaro. Non c'è la possibilità di governare il fenomeno con politiche di respingimento o di rimpatrio. Nessuno ci è riuscito e non starò a spiegare le ragioni che sono evidenti.

Voglio qui soltanto sottolineare che è necessario abbandonare ogni posizione puramente ideologica e fare l'unica cosa che è ragionevole fare.

Lascio la parola a Francesco Bei de La Repubblica che mi sembra riassuma in modo chiaro l'obiettivo da perseguire. Sono parole rivolte al Governo attuale ma che potrebbero essere rivolte a qualunque Governo presente o passato:

«Si tratta di prendere atto che la legge Bossi-Fini, figlia di un’altra epoca, non funziona più. Voi stessi ve ne rendete conto visto che avete triplicato i numeri del decreto flussi. C’è un enorme domanda di forza lavoro in Italia che non riesce a incontrare legalmente l’offerta. Rendete possibile assumere i lavoratori stranieri, rendete facili i permessi di soggiorno, legalizzate la clandestinità facendo emergere questi “fantasmi” in modo che possano iniziare a integrarsi con noi, studiare l’italiano, imparare un mestiere, mandare a scuola i propri figli. E, infine, fate diventare cittadini italiani i ragazzi e le ragazze che sono cresciuti qui».

Spero, ripeto, che la ragione prevalga su questioni puramente ideologiche e si possa finalmente raggiungere un obiettivo che coniughi il nostro interesse come Paese con i sentimenti di umanità e accoglienza.

Verba Woland: il lato oscuro della rete

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Da Massimo Bruschi per La città invisibile

Ultimamente gli articoli che riguardano la rete ("internetworking") si vanno moltiplicando a dismisura e le cassandre sono sempre più numerose. Cresce il numero di coloro che avvertono oscure minacce e invitano alla diffidenza. Ma...e qui riprendo un mio vecchio post  firmato Prof. Woland...

...Ma a parte ciò, senza voler considerare un certo cyber-utopismo per cui tutto ciò che riguarda la rete è sacro in quanto la rete è libertà, la rete è democrazia, la rete salverà il mondo e quindi "giù le mani dalla rete che metterà in ginocchio i potenti", colgo l'occasione per uno spunto di riflessione, una suggestione.

Mi riferisco al saggio di Evgenij Morozov The Net Delusion dal significativo sottotitolo The Dark Side of Internet Freedom, pubblicato in Italia dalla Codice edizioni col titolo L'ingenuità della rete, Il lato oscuro della libertà di Internet.

In questo interessante lavoro Morozov sostiene che la convinzione che le tecnologie digitali producano solo mutamenti positivi e concorrano significativamente al rafforzarsi della democrazia non corrisponda alla realtà. Dimostra altresì che Twitter e Facebook non hanno avuto alcun ruolo cruciale nelle ultime rivoluzioni o primavere e che in Cina e in Russia tali strumenti sono studiati apposta per spostare l'attenzione dei giovani dall'impegno e dalla partecipazione civile.

Nel capitolo 10 intitolato Fare la storia (e non solo il menu di un browser) ci rammenta che Karl Marx credeva che le ferrovie avrebbero eliminato le caste in India, e che si ritenesse che la televisione sarebbe stata il più grande mezzo di liberazione delle masse. Aggiunge che: ogni nuova tecnologia è stata osannata per la sua capacità di alzare il livello del dibattito pubblico, accrescere la trasparenza politica, limitare il nazionalismo e condurre tutti noi nel mitico villaggio globale. In realtà spesso i risultati sono stati antitetici rispetto alle promesse.

Così - dice Morozov - è poi accaduto col telegrafo, con l'aeroplano, con la radio. E mette in guardia:

Il problema maggiore di quasi tutte le previsioni sulla tecnologia è che sono fatte basandosi costantemente su come il mondo gira oggi, e non su come girerà domani. Ma il mondo, come sappiamo, non sta fermo: politica, economia e cultura cambiano anche le tecnologie stesse.

La televisione, per esempio, ritenuta negli anni cinquanta in America rafforzatrice dei legami della comunità (i televisori erano pochi e ci si riuniva tra amici e parenti per guadare la tv) è oggi considerata uno "strumento di erosione dei legami all'interno delle famiglie" dal momento che si dispone di più apparecchi e vige la "cultura della camera da letto": ognuno si ritira nella sua camera e se ne sta solo davanti all'apparecchio.

Naturalmente si può non essere d'accordo con Morozov ed io per ora sospendo il giudizio pur essendo convinto che la rete sia uno strumento meraviglioso.

Del resto il discorso non riguarda solo la tecnologia: chi avrebbe mai immaginato che in nome di colui che aveva detto "Chi è senza peccato scagli la prima pietra" e "A chi ti percuote sulla guancia, porgi anche l'altra; a chi ti leva il mantello, non rifiutare la tunica" si sarebbero accesi i roghi della sacra inquisizione, si sarebbero benedetti cannoni e bombe ed innalzati i patiboli?

Verba Woland: capitalismo woke

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Da Massimo Bruschi per La città invisibile

Da pochi giorni è finalmente in libreria la traduzione italiana del  saggio Woke capitalism di Carl Rhodes di cui abbiamo parlato un anno fa.

Il saggio ha una bella prefazione del politologo Carlo Galli, Professore ordinario di Storia delle dottrine politiche nell'Università di Bologna che tra le altre cose scrive:
"Gran bel libro, contiene una forte capacità critica, pacata ma radicale; la lettura è scorrevole e piacevole; il testo ricco, informato; le argomentazioni acute e ragionevoli, impeccabili, del tutto condivisibili".
Mi è parso quindi utile informare i lettori, riproporre il post e rispondere alla domanda: "Quando le aziende parlano di uguaglianza e giustizia ci si può davvero fidare?".

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Credo che tutti voi vi siate imbattuti, negli ultimi tempi, in spot pubblicitari sorprendentemente, per così dire, virtuosi. Le aziende, in questi casi, anziché porre l'enfasi sulle qualità dei loro prodotti mettono in atto una comunicazione che ha come obiettivo la diffusione di valori e visioni del mondo. Le aziende, in altre parole, anziché preoccuparsi esclusivamente degli azionisti, dei dipendenti e dei clienti sembrano preoccuparsi della giustizia sociale o di altre importanti problematiche (ambiente, politica, razzismo, etc). Estendono quindi la loro responsabilità ad ambiti che non sono in alcun modo collegati ai loro interessi.

Questo fenomeno ha un nome: woke capitalism che si potrebbe forse tradurre capitalismo consapevole.

Ora non voglio addentrarmi nel ginepraio che la parola woke evoca. Dirò soltanto che mentre prima col termine woke si intendeva un atteggiamento consapevole delle ingiustizie sociali, ora il termine ha assunto una connotazione negativa: spregiativa e sarcastica. Qui potete trovare un approfondimento, io mi limiterò alla questione del woke capitalism.

E la questione di cui dobbiamo occuparci è: siamo di fronte ad una svolta positiva o c'è qualcosa di inquietante, atteso che profitto e responsabilità sociale non siamo sicuri che vadano a braccetto?

Naturalmente, come al solito, la questione è complessa. Il fenomeno attira l'avversione delle destra conservatrice che lo ritiene un tradimento del principio capitalista in quanto certe teorie, se recepite dai governi, potrebbero limitare la libertà d'azione e lo spirito d'impresa.

In realtà secondo alcuni studiosi questa critica sarebbe miope. Le aziende non vogliono stravolgere i princìpi del capitalismo bensì proteggere quest'ultimo, salvarlo. Si tratta di difendersi dalla rabbia popolare che ha come oggetto le grandi imprese, “una tattica difensiva per scongiurare quella che era vista come una vera minaccia del socialismo”. Il capitalismo woke avrebbe il solo fine di “garantire che il capitalismo e le disuguaglianze che produce possano sopravvivere senza una rivolta popolare”. E non è un caso se le campagne pubblicitarie del Woke Capitalism sono soprattutto "progettate per attrarre i millennial, che spesso hanno opinioni socialmente più liberali rispetto alle generazioni precedenti". Dunque c'è ben poco di virtuoso.

Ne è assolutamente convinto Carl Rhodes (Decano e  Professore di Organization Studies at UTS Business School di Sidney) e ce lo spiega nel suo saggio Woke Capitalism. How Corporate Morality is Sabotaging Democracy (Capitalismo woke: come la moralità aziendale sta sabotando la democrazia) che Micromega anticipa dal momento che non è stato ancora tradotto in Italiano.

Il titolo è eloquente. Come al solito non possiamo essere ottimisti. Rhodes, infatti, "argues that this surreptitious extension of capitalism has serious implications for us all" ovvero "sostiene che questa estensione surrettizia del capitalismo ha serie implicazioni per tutti noi".

Una vera minaccia per il futuro della democrazia.

Verba Woland: spot pesca, un esempio di woke capitalism

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Da Massimo Bruschi per La città invisibile

Giusto la scorsa settimana avevo riproposto una riflessione sul fenomeno chiamato Woke Capitalism ed ecco che ne abbiamo un esempio importante in Italia.

Credo ne abbiate sentito parlare tutti e forse lo avete anche visto. Per comodità riassumo il contenuto.

Una giovane madre che sta facendo la spesa in un supermercato perde di vista la figlioletta Emma, una bimbetta di 5 o 6 anni. La chiama, la cerca e la trova nel reparto frutta. La bimba vuole una pesca. La madre l'acquista e subito dopo tornano a casa in auto. La bimba appare imbronciata e triste. Giunti in casa la mamma avverte Emma: deve prepararsi perché il padre l'aspetta giù in macchina. La bimbetta scende dal padre e dopo l'abbraccio cerca nello zainetto la pesca e gliela offre dicendo: "Questa te la manda la mamma". Il padre a questo punto risponde che gli piacciono le pesche e che chiamerà la mamma per ringraziarla. Emma finalmente sorride.

Lo spot ha scatenato una vivace polemica: sono intervenuti giornalisti, psicologi, educatori, politici. Ognuno ha detto la sua e data la pletora di tali interventi sui media la proprietà del supermercato in questione ringrazia.

Dicevamo che lo spot è un classico esempio di woke capitalism ed infatti qui non si cantano i pregi dei prodotti venduti dalla nota catena alimentare. Qui si interviene su un preciso tema, la famiglia, e se ne dà una lettura che la maggior parte degli osservatori ha interpretato come uno spot a favore della famiglia unita tradizionale. Secondo costoro insomma il messaggio sarebbe: "Non separatevi, se non volete che i figli soffrano e siano tristi".

Ora, mi rendo conto che il tema della famiglia susciti reazioni emotive di vario genere e quindi capisco che abbia preso il sopravvento nella discussione. Ciò nondimeno resto stupito che, per quanto ne so, non si sia inquadrato l'argomento alla luce del woke capitalism (almeno io non ho letto né sentito alcun riferimento in tal senso).

Il fatto su cui porre l'enfasi è, a mio parere,  l'invasione di campo non il contenuto del messaggio: quale che sia il messaggio dello spot, è necessario prendere coscienza sul rischio insito in tale fenomeno.

Una ditta - che magari dispone di ingenti risorse economiche - può propagandare anziché un prodotto commerciale una idea sociale, politica, di costume? La risposta non può che essere sì, dal momento che sarebbe illiberale vietare una tale prassi. Ma occorre che i cittadini siano messi in guardia. La ragione è semplice. Se un spot del genere fosse firmato, infatti,  Presidenza del Consiglio dei Ministri, il cittadino saprebbe che si tratta di una iniziativa squisitamente politica e certamente potrebbe valutare il messaggio in modo critico. E lo stesso accadrebbe se la fonte fosse un qualunque personaggio politico. Nel momento in cui, invece, lo spot sembra del tutto neutrale, il sistema immunitario potrebbe non reagire. Si è insomma indifesi rispetto ad un messaggio che potrebbe influenzare in modo radicale e profondo il nostro pensiero. Si aggiunga poi che anche i bambini - soggetti ancor più fragili e influenzabili - guardano la pubblicità.

Insomma credo si possa convenire che sotto questo aspetto Carl Rhodes ha visto giusto: l'invasione di campo c'è e può essere estremamente pericolosa.

L'importante, ripeto, è essere a conoscenza del fenomeno woke capitalism in modo che si possa alzare la guardia e altrettanto importante sarebbe aprire un dibattito incentrato su di esso.

Verba Woland: destini immutabili

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Ho letto da poco la bellissima recensione di Emanuele Trevi alla ristampa di Infelicità senza desideri di Peter Handke (Premio Nobel per la letteratura. 2019). Il libro, autobiografico, racconta la tragedia della mamma di Handke suicidatasi all'età di 51 anni per un «crollo nervoso».

Cito questo libro perché mi ha molto colpito questa frase: «L'anonimato è un attributo classico della povertà, così come il sentimento di un destino decretato fin dalla nascita e impossibile da modificare. Ma è la condizione femminile quella che più incatena a una vita sottomessa, taciturna, uniforme».

Handke a questo proposito ricorda un particolare davvero significativo: nelle fiere di paese le chiromanti predicevano il futuro agli uomini ma non alle donne tanto era scontato che il futuro di queste ultime era immutabile.

In ogni caso ciò che davvero mi angoscia è quella frase senza speranza: «un destino decretato fin dalla nascita e impossibile da modificare».

È questo il motivo per cui da sempre continuo a battermi perché gli esseri umani abbiano la possibilità di modificare il proprio destino come dovrebbe essere del tutto naturale: il destino infatti non è il fato e quindi può essere modificato secondo l'antico aforisma «faber est suae quisque fortunae».

Non può dunque essere perdonato chi vuole trasformare il destino in fato condannando uomini e donne ad un destino immodificabile.

Occorre dunque aprire la propria mente e il proprio cuore per essere in grado di concedere ai meno fortunati tutte le opportunità possibili.

A tal fine voglio segnalare l'articolo di Daniele Aristarco intitolato Perché c'è bisogno di cattivi maestri.

Ora dobbiamo distinguere. Ci sono vari tipi di cattivi maestri: quelli che tormentano i propri allievi e quelli che li portano sulla cattiva strada. Questi vanno assolutamente evitati. Ma poi ci sono quei maestri  - che di solito vengono anch'essi definiti "cattivi"  - che «si espongono e ci espongono mostrandoci strade inconsuete».

Scrive Aristarco:

«Secondo Pier Paolo Pasolini la gente non ha bisogno di essere educata ma di essere diseducata. E allora forse abbiamo bisogno di quei maestri che sanno diseducare. E che si espongano con noi. [...] Bisogna tendere l'orecchio per ascoltare la loro voce e tentare, poi, di condividere l'alto compito che Gianni Rodari ha indicato: "Passare dall'accettazione passiva del mondo alla capacità di criticarlo, all'impegno per trasformarlo.
Siamo abituati ad apprendere seguendo una linea già tracciata. I cattivi maestri ci aiutano a uscire dallo schema, a cercare qualcosa di nuovo. stiamoli ad ascoltare e, sssh!, abbassiamo la voce. Altrimenti saremo noi i cattivi maestri
».

Scrivo questo post dopo i tragici, inaspettati avvenimenti che con l'attacco  di Hamas hanno riacceso il conflitto israelo-palestinese.

Razzi, bombe, raid aerei,  morti, feriti, macerie, in un mondo che mi appare sempre più lacerato e antiquato.

Non si può più, non si deve, accettare passivamente che tutto questo sia un immutabile destino.

[16:13, 8/10/2023] Massimo: Bisogna tendere l'orecchio per ascoltare la loro voce e tentare poi di condividere l'alto compito che Gianni Rodari ha indicato passare dall'accettazione passiva del mondo alla capacità di criticarlo al impegni o per trasformarlo
[16:13, 8/10/2023] Massimo: Siamo abituati ad apprendere seguendo una linea già tracciata i cattivi maestri ci aiutano a uscire dallo schema a cercare qualcosa di nuovo stiamo lì ad ascoltare e se abbassiamo la voce altrimenti saremo noi i cattivi maestri


Verba Woland: domande mal poste

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Da Massimo Bruschi per La città invisibile

Acclarato che certi argomenti impediscono un dibattito sereno oggi torno a pubblicare un vecchio post sulle domande mal poste che può essere utile per qualsiasi riflessione.

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Nell'ultimo post ho affrontato il problema delle domande mal poste che possono originare problemi apparentemente insolubili.

Un esempio, tratto dalla matematica, lo potrebbe fornire la congettura di Goldbach uno dei più vecchi problemi irrisolti della teoria dei numeri.

La congettura afferma che: "ogni numero maggiore di due può essere scritto come somma di due numeri primi".

Ricordo ai lettori in possesso di talento e buona volontà che l'editore britannico Tony Faber ha offerto nel 2000 un premio di un milione di dollari a chi avesse dimostrato la congettura. Nessuno hai mai reclamato, da allora,  il premio.

Dov'è il problema? Il fatto è che, al contrario di quanto pensavano i matematici fino alla fine dell'ottocento, in una teoria ipotetico-deduttiva non vale sempre il princio del tertium non datur, cioè data una proposizione non è detto che sia o vera o falsa. Essa (alla luce dei teoremi di incompletezza delle teorie matematiche, gloria del logico matematico austriaco Kurt Gödel) potrebbe essere indecidibile cioè (in realtà la definizione è un po' più sofisticata) non dimostrabile.

Peranto se per ipotesi la congettura di Goldbach fosse davvero indecidibile (all'interno di un dato sistema di assiomi) ecco che non avrebbe alcun senso chiedersi se la proposizione  è vera o è falsa.

Possiamo fare un esempio anche al di fuori della matematica.

Consideriamo la cosiddetta Grelling-Nelson Antinomie nota anche come il paradosso dell'eterologicità. Si tratta di un paradosso semantico.

Un aggettivo si dice autologico se e soltanto descrive se stesso: per esempio l'aggettivo 'sdrucciolo' è autologico perchè la parola è accentata sulla terzultima sillaba e quindi è sdrucciola.

Un aggettivo si dice invece eterologico se non è autologico cioè se non descrive se stesso. Per esempio l'aggettivo 'monosillabico' è eterologico dal momento che non è composto di una sola sillaba.

Ora l'antinomia nasce  se ci poniamo la domanda: "l'aggettivo eterologico è eterologico"?

Infatti se rispondiamo sì, l'aggettivo non dovrebbe descrivere se stesso ma invece lo descrive.

Se rispondiamo no, l'aggettivo dovrebbe essere autologico e descrvere se stesso ma questo non accade.

Insomma a causa dell'antinomia ecco che la domanda viene ad essere sbagliata in quanto nessuna risposta potrà soddisfarla.

Spero di aver chiarito il mio pensiero che ha una conseguenza importante che voglio ribadire. Quando l'uomo si pone delle domande non può escludere a priori che il suo ragionamento sia intrinsecamente viziato.

Quindi quando si chiede (come ha sempre fatto fin dalla notte dei tempi) "chi ha creato l'universo?"  oppure "come è possibile che l'universo sia sempre esistito?" et similia può semplicemente darsi che stia ponendo le domande sbagliate.

E che le risposte che si è dato siano senza senso.

Chiudo pertanto rammentando l'aforisma di Pierre-Marc-Gaston de Lévis:

Il est encore plus facile de juger de l'esprit d'un homme par ses questions que par ses réponses.

È più facile giudicare l’ingegno di un uomo dalle sue domande che non dalle sue risposte.
Pierre-Marc-Gaston de Lévis

Verba Woland: Israele, evitare la trappola

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Da Massimo Bruschi per La città invisibile

Yuval Noah Harari è uno storico, filosofo e scrittore israeliano docente all'Università Ebraica di Gerusalemme e membro della Accademia israeliana delle scienze e delle lettere. Noto in tutto il mondo per il suoi best seller internazionale come Sapiens Da animali a dèi. Breve storia dell'umanità (pubblicato in ebraico e poi tradotto in più di 30 lingue).

Harari ha partecipato l'altra sera alla trasmissione otto e mezzo su La7. Dopo aver espresso la sua ferma condanna sull'attacco terroristico di Hamas e aver ricordato che in uno dei kibbutz attaccati dai terroristi vivono dei suoi parenti (tra cui uno zio quasi centenario che già aveva sofferto indicibilmente per l'Olocausto), ha detto con pacatezza le sole parole che ha senso dire se non si è animati da una cieca ideologia. Se si vuole sperare, sia pure non in tempi brevi, come Harari stesso dice, in un futuro di pace.

Le ho trascritte pazientemente e le riporto qui.

«La mente degli Israeliani è talmente piena di dolore che sono incapaci di sentire o di vedere il dolore degli altri. Chiunque parli del dolore degli altri lo vedono come un tradimento. Lo stesso vale per i Palestinesi. Anche per molti di loro le loro menti sono talmente riempite di dolore che non riescono a provare alcun tipo di compassione per il dolore di nessun altro. È difficile chiederglielo».

Facciamo una pausa e riflettiamo bene su questa premessa. Ora lo storico continua:

«Ma le persone che sono al di fuori, quelle che non si trovano attualmente in questo oceano di dolore, che non hanno parenti lì, sono questi che dovrebbero essere capaci di vedere entrambi i lati di questa realtà complessa, senza essere pigri intellettualmente o pigri emotivamente, senza scegliere un'unica parte e pensare che il cento per cento della purezza e della giustizia sia solo da una parte e il cento per cento del male sia dall'altra. Le persone al di fuori devono fare uno sforzo per non cadere in questa trappola».

Anche ora vale la pena di fare una pausa. Sono parole che io ritengo definitive su quale sia l'atteggiamento da seguire per noi che non ci troviamo in quell'oceano di dolore.

Ora Harari spiega perché è necessario farlo.

«Scopo di Hamas non è solo uccidere i civili o torturarli, lo scopo è di seminare intenzionalmente l'odio nelle menti di milioni di Israeliani. Sapevano che Israele si sarebbe vendicato con forza e anche questo semina l'odio in milioni di menti».

Infine, non meno importante è quest'ultimo pensiero che merita una profonda riflessione.

«Posso dire, da storico, che la maledizione della storia, la cosa tremenda della storia, sono le persone che cercano di salvare il passato. Ma non si può tornare al passato per migliorarlo. Il passato è passato, non c'è più. Bisogna guardare al futuro. Sfortunatamente le persone usano le ferite del passato come fosse una scusa per le ferite del futuro: tu mi hai fatto questo, io faccio questo a te. E questo crea un ciclo costante, per questo le ferite del passato noi le dobbiamo curare senza aggiungerne altre».

È uno storico che parla, un ebreo che parla. Un israeliano che insegna nell'Università ebraica di Gerusalemme, che è membro della Accademia israeliana delle scienze e delle lettere. Un ebreo che ha parenti che hanno sofferto l'orribile attacco di Hamas ed è quindi immerso nell'oceano di dolore.

Ecco, io mi riconosco completamente in queste parole.

Io credo che l'invito, il monito, che Yuval Noah Harari ci rivolge non possa essere ignorato.